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udienza del mercoledi

Ultimo Aggiornamento: 29/01/2009 20:53
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14/01/2009 23:00
 
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Udienza del (14 gennaio 2009)
«Il cosmo è l'impronta di Cristo»

Cari fratelli e sorelle,

tra le Lettere dell'epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini, che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l'una e l'altra hanno dei modi di dire che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge letteralmente l'invito a "esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori" (Col 3,16), in Efesini si raccomanda ugualmente di "parlare tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore" (Ef 5,19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento; impariamo così ad essere insieme con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un cosiddetto "codice domestico", assente nelle altre Lettere paoline, cioè una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a padroni e schiavi (cfr rispettivamente Col 3,18-4,1 e Ef 5,22-6,9).

Più importante ancora è constatare che solo in queste due Lettere è attestato il titolo di "capo", kefalé, dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso come capo della Chiesa (cfr Col 2,18-19 e Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18: "Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa"; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo Col 2,19 bisogna "tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione"): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in modo retto.

In entrambi i casi, la Chiesa è considerata sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione - i comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma sono forze vitali che vengono da Lui e ci aiutano.

Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini, dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo Spirito Santo (come 1 Cor 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è Lui che "ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (4,11). Ed è da Lui che "tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, ... riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità" (4,16). Cristo infatti è tutto teso a "farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata" (Ef 5,27). Con questo ci dice che la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore.

Quindi il primo significato è Cristo Capo della Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla ispirazione e vitalizzazione organica in virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è considerato non solo come capo della Chiesa, ma come capo delle potenze celesti e del cosmo intero. Così in Colossesi leggiamo che Cristo "ha privato della loro forza i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale" di Lui (2,15). Analogamente in Efesini troviamo scritto che, con la sua risurrezione, Dio pose Cristo "al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro" (1,21). Con queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l'uomo. Solo Lui "ci ha amati e ha dato se stesso per noi" (Ef 5,2). Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa!

Per il mondo pagano, che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l'annuncio che Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni dominazione, è il vero Signore del mondo.

Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli Efesini, che parla del progetto di Dio di "ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra" (1,10). Analogamente nella Lettera ai Colossesi si legge che "per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili" (1,16) e che "con il sangue della sua croce ... ha rappacificato le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli" (1,20). Quindi non c’è, da una parte, il grande mondo materiale e dall'altra questa piccola realtà della storia della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell'universo. E direi una visione più universalistica di questa non era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto. Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra è assiso (cfr Ef 1,20; Col 3,1), e quindi anche la sua ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani.

Una visione del genere è concepibile solo da parte della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa riconosce che in qualche modo Cristo è più grande di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all'identità di Cristo stesso.

C'è poi anche un concetto speciale, che è tipico di queste due Lettere, ed è il concetto di "mistero". Una volta si parla del "mistero della volontà" di Dio (Ef 1,9) e altre volte del "mistero di Cristo" (Ef 3,4; Col 4,3) o addirittura del "mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza" (Col 3,2-3). Esso sta a significare l'imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell'uomo, dei popoli e del mondo. Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del "mistero" e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma quella che viene chiamata "la multiforme sapienza di Dio" (Ef 3,10), poiché in Lui "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col 2,9). D'ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in persona, in cui quel "mistero" si incarna e può essere tangibilmente percepito. Si perviene così a contemplare la "ininvestigabile ricchezza di Cristo" (Ef 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l'orma di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di "quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità" di questo mistero "che sorpassa ogni conoscenza" (Ef 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non solo della mente ma anche del cuore. I Padri della Chiesa, del resto, ci dicono che l’amore comprende di più che la sola ragione.

Un'ultima parola va detta sul concetto, già accennato sopra, concernente la Chiesa come partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata, scrivendo così: "Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2 Cor 11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine, precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della sua vita: come dice il testo, "ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). Quale dimostrazione d'amore può essere più grande di questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, "senza ruga né macchia", nel suo comportamento morale (cfr Ef 5,26-27). Da qui alla comune esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben chiaro quale sia per l'autore della Lettera il punto di riferimento iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla cui luce pensare l'unione dell'uomo e della donna, oppure se sia il dato esperienziale dell'unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4.16.21), e il Veggente dell’Apocalisse, che prospetterà l'incontro escatologico tra la Chiesa e l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9; 21,9).

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che, da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a capire che il cosmo è l'impronta di Cristo, impariamo il nostro retto rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo. Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo come vivere con Cristo l'amore reciproco, l'amore che ci unisce a Dio e che ci fa vedere nell'altro l'immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così realmente a vivere bene.

21/01/2009 23:03
 
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Udeinza del (21 gennaio 2009)
La «responsabilità di mostare al mondo l'unità dei cistiani»

 

Cari fratelli e sorelle!

Domenica scorsa è iniziata la "Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani", che si concluderà domenica prossima, festa della Conversione di san Paolo apostolo. Si tratta di una iniziativa spirituale quanto mai preziosa, che va estendendosi sempre più tra i cristiani, in sintonia e, potremmo dire, in risposta all’accorata invocazione che Gesù rivolse al Padre nel Cenacolo, prima della sua Passione: "Che siano una cosa sola, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17, 21). Ben quattro volte, in questa preghiera sacerdotale, il Signore chiede che i suoi discepoli siano "una cosa sola", secondo l’immagine dell’unità tra il Padre e il Figlio. Si tratta di una unità che può crescere soltanto sull’esempio del donarsi del Figlio al Padre, cioè uscendo da sé e unendosi a Cristo. Due volte, inoltre, in questa preghiera, Gesù aggiunge come scopo di questa unità: perché il mondo creda. La piena unità è quindi connessa alla vita e alla missione stessa della Chiesa nel mondo. Essa deve vivere una unità che può derivare solo dalla sua unità con Cristo, con la sua trascendenza, quale segno che Cristo è la verità. E’ questa la nostra responsabilità: che sia visibile nel mondo il dono di una unità in virtù della quale si renda credibile la nostra fede. Per questo è importante che ogni comunità cristiana prenda consapevolezza dell’urgenza di operare in tutti i modi possibili per giungere a questo obiettivo grande. Ma, sapendo che l’unità è innanzitutto "dono" del Signore, occorre al tempo stesso implorarla con instancabile e fiduciosa preghiera. Solo uscendo da noi e andando verso Cristo, solo nella relazione con Lui possiamo diventare realmente uniti tra di noi. E’ questo l’invito che, con la presente "Settimana", viene rivolto ai credenti in Cristo di ogni Chiesa e Comunità ecclesiale; ad esso, cari fratelli e sorelle, rispondiamo con pronta generosità.

Quest’anno, la "Settimana di preghiera per l’unità" propone alla nostra meditazione e preghiera queste parole tratte dal libro del profeta Ezechiele: "Che formino una cosa sola nella tua mano" (37,17). Il tema è stato scelto da un gruppo ecumenico della Corea, e riveduto poi per la divulgazione internazionale dal Comitato Misto per la Preghiera formato da rappresentanti del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e del Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra. Il processo stesso di preparazione è stato un fecondo e stimolante esercizio di vero ecumenismo.

Nel brano del libro del profeta Ezechiele, da cui è tratto il tema, il Signore ordina al profeta di prendere due legni, uno come simbolo di Giuda e delel sue tribù e l’altro come simbolo di Giuseppe e di tutta la casa d’Israele unita a lui, e gli chiede di "accostarli", in modo da formare un solo legno, "una cosa sola" nella sua mano. Trasparente è la parabola dell’unità. Ai "figli del popolo", che domanderanno spiegazione, Ezechiele, illuminato dall’Alto, dirà che il Signore stesso prende i due legni e li accosta, in modo che i due regni con le rispettive tribù, tra loro divise, diventino "una cosa sola nella sua mano". La mano del profeta, che accosta i due legni, viene considerata come la mano stessa di Dio che raccoglie e unifica il suo popolo e finalmente l’intera umanità. Possiamo applicare le parole del profeta ai cristiani, nel senso di un’esortazione a pregare, a lavorare facendo tutto il possibile perché si compia l’unità di tutti i discepoli di Cristo, a lavorare affinchè la nostra mano sia strumento della mano unificante di Dio. Questa esortazione diventa particolarmente commovente ed accorata nelle parole di Gesù dopo l’Ultima Cena. Il Signore desidera che l’intero suo popolo cammini – e vede in questo la Chiesa del futuro, dei secoli futuri – con pazienza e perseveranza verso il traguardo della piena unità. Impegno questo, che comporta adesione umile e docile obbedienza al comando del Signore, il quale lo benedice e lo rende fecondo. Il profeta Ezechiele ci assicura che sarà proprio Lui, il nostro unico Signore, l’unico Dio, a raccoglierci nella "sua mano".

Nella seconda parte della lettura biblica si approfondiscono il significato e le condizioni dell’unità delle varie tribù in un solo regno. Nella dispersione tra le genti, gli Israeliti avevano conosciuto culti erronei, avevano maturato concezioni di vita sbagliate, avevano assunto costumi alieni dalla legge divina. Ora il Signore dichiara che non si contamineranno più con gli idoli dei popoli pagani, con i loro abomini, con tutte le loro iniquità (cfr Ez 37, 23). Richiama la necessità di liberarli dal peccato, di purificare il loro cuore. "Li libererò da tutte le ribellioni – afferma –, li purificherò". E così "saranno il mio popolo ed io sarò il loro Dio" (Ibid.). In questa condizione di rinnovamento interiore, essi "seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi, e le metteranno in pratica". Ed il testo profetico si conclude con la promessa definitiva e pienamente salvifica: "Farò con loro un’alleanza di pace … Porrò il mio santuario, cioè la mia presenza, in mezzo a loro" (Ez 37,26).

La visione di Ezechiele diviene particolarmente eloquente per l’intero movimento ecumenico, perché pone in luce l’esigenza imprescindibile di un autentico rinnovamento interiore in tutti i componenti del Popolo di Dio che il Signore solo può operare. A questo rinnovamento dobbiamo essere aperti anche noi, perché anche noi, dispersi tra i popoli del mondo, abbiamo imparato usanze molto lontane dalla Parola di Dio. "Siccome ogni rinnovamento della Chiesa – si legge nel Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II - consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, questa è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità" (UR, 6), cioè la maggiore fedeltà alla vocazione di Dio. Il decreto sottolinea poi la dimensione interiore della conversione del cuore. "Ecumenismo vero – aggiunge - non c’è senza interiore conversione, perché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stesso e dal pieno esercizio della carità" (UR, 7). La "Settimana di preghiera per l’unità" diviene, in tal modo, per tutti noi stimolo a una conversione sincera e a un ascolto sempre più docile della Parola di Dio, a una fede sempre più profonda.

La "Settimana" è anche occasione propizia per ringraziare il Signore per quanto ha concesso di fare sinora "per accostare", gli uni agli altri, i cristiani divisi, e le stesse Chiese e Comunità ecclesiali. Questo spirito ha animato la Chiesa cattolica, la quale, nell’anno appena trascorso, ha proseguito, con salda convinzione e radicata speranza, a intrattenere relazioni fraterne e rispettose con tutte le Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente e di Occidente. Nella varietà delle situazioni, talvolta più positive e talora con maggiori difficoltà, si è sforzata di non venire mai meno all’impegno di compiere ogni sforzo tendente alla ricomposizione della piena unità. Le relazioni fra le Chiese e i dialoghi teologici hanno continuato a dare segni di convergenze spirituali incoraggianti. Io stesso ho avuto la gioia di incontrare, qui in Vaticano e nel corso dei miei viaggi apostolici, cristiani provenienti da ogni orizzonte. Ho accolto con viva gioia per tre volte il Patriarca Ecumenico Sua Santità Bartolomeo I ed, evento straordinario, lo abbiamo sentito prendere la parola, con fraterno calore ecclesiale e con convinta fiducia verso l’avvenire, durante la recente assemblea del Sinodo dei Vescovi. Ho avuto il piacere di ricevere i due Catholicoi della Chiesa Apostolica Armena: Sua Santità Karekin II di Etchmiazin e Sua Santità Aram I di Antelias. E infine ho condiviso il dolore del Patriarcato di Mosca per la dipartita dell’amato fratello in Cristo, il Patriarca Sua Santità Alessio II, e continuo a restare in comunione di preghiera con quei nostri fratelli che si preparano ad eleggere il nuovo Patriarca della loro veneranda e grande Chiesa ortodossa. Ugualmente mi è stato dato di incontrare rappresentanti delle varie Comunioni cristiane di Occidente, con i quali prosegue il confronto sull’importante testimonianza che i cristiani devono dare oggi in modo concorde, in un mondo sempre più diviso e posto di fronte a tante sfide di carattere culturale, sociale, economico ed etico. Di questo e di tanti altri incontri, dialoghi, e gesti di fraternità che il Signore ci ha concesso di poter realizzare, rendiamo insieme a Lui grazie con gioia.

Cari fratelli e sorelle, cogliamo l’opportunità che la "Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani" ci offre per chiedere al Signore che proseguano e, se possibile, si intensifichino l’impegno e il dialogo ecumenico. Nel contesto dell’Anno Paolino, che commemora il bimillenario della nascita di san Paolo, non possiamo non rifarci anche a quanto l’Apostolo Paolo ci ha lasciato scritto a proposito dell’unità della Chiesa. Ogni mercoledì vado dedicando la mia riflessione alle sue lettere e al suo prezioso insegnamento. Riprendo qui semplicemente quanto egli scrive rivolgendosi alla comunità di Efeso: "Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4,4-5). Facciamo nostro l’anelito di san Paolo, che ha speso la sua vita interamente per l’unico Signore e per l’unità del suo mistico Corpo, la Chiesa, rendendo, con il martirio, una suprema testimonianza di fedeltà e di amore a Cristo.

Seguendo il suo esempio e contando sulla sua intercessione, ogni comunità cresca nell’impegno dell’unità, grazie alle varie iniziative spirituali e pastorali e alle assemblee di preghiera comune, che di solito si fanno più numerose e intense in questa "Settimana", facendoci già pregustare, in un certo modo, il giorno dell’unità piena. Preghiamo perchè tra le Chiese e le Comunità ecclesiali continui il dialogo della verità, indispensabile per dirimere le divergenze, e quello della carità che condiziona lo stesso dialogo teologico e aiuta a vivere insieme per una testimonianza comune. Il desiderio che ci abita in cuore è che si affretti il giorno della piena comunione, quando tutti i discepoli dell’unico nostro Signore potranno finalmente celebrare insieme l’Eucaristia, il sacrificio divino per la vita e la salvezza del mondo. Invochiamo la materna intercessione di Maria, perché aiuti tutti i cristiani a coltivare un più attento ascolto della Parola di Dio e una più intensa preghiera per l’unità.

29/01/2009 20:53
 
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Udienza del mercoledi

Udienza del (28 gennaio 2009)
«La Chiesa, famiglia di Dio»

Cari fratelli e sorelle,

le ultime Lettere dell'epistolario paolino, delle quali vorrei parlare oggi, vengono chiamate Lettere Pastorali, perché sono state inviate a singole figure di Pastori della Chiesa: due a Timoteo e una a Tito, collaboratori stretti di san Paolo. In Timoteo l’Apostolo vedeva quasi un alter ego; infatti gli affidò delle missioni importanti (in Macedonia: cfr At 19,22; a Tessalonica: cfr 1 Ts 3,6-7; a Corinto: cfr 1 Cor 4,17; 16,10-11), e poi scrisse di lui un elogio lusinghiero: "Io non ho nessuno di animo uguale come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose che vi riguardano" (Fil 2,20). Secondo la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, del IV secolo, Timoteo fu poi il primo Vescovo di Efeso (cfr 3,4). Quanto a Tito, anch'egli doveva essere stato molto caro all'Apostolo, che lo definisce esplicitamente "pieno di zelo... mio compagno e collaboratore" (2 Cor 8,17.23), anzi "mio vero figlio nella fede comune" (Tt 1,4). Egli era stato incaricato di un paio di missioni molto delicate nella Chiesa di Corinto, il cui risultato rincuorò Paolo (cfr 2 Cor 7,6-7.13; 8,6). In seguito, per quanto ci è tramandato, Tito raggiunse Paolo a Nicopoli nell’Epiro, in Grecia (cfr Tt 3,12), e fu poi da lui inviato in Dalmazia (cfr 2 Tm 4,10). Secondo la Lettera a lui indirizzata, egli risulta poi essere stato Vescovo di Creta (cfr Tt 1,5).

Le Lettere indirizzate a questi due Pastori occupano un posto tutto particolare all'interno del Nuovo Testamento. La maggioranza degli esegeti è oggi del parere che queste Lettere non sarebbero state scritte da Paolo stesso, ma la loro origine sarebbe nella "scuola di Paolo", e rifletterebbe la sua eredità per una nuova generazione, forse integrando qualche breve scritto o parola dell’Apostolo stesso. Ad esempio, alcune parole della Seconda Lettera a Timoteo appaiono talmente autentiche da poter venire solo dal cuore e dalla bocca dell’Apostolo.

Senza dubbio la situazione ecclesiale che emerge da queste Lettere è diversa da quella degli anni centrali della vita di Paolo. Egli, adesso, in retrospettiva si autodefinisce "araldo, apostolo, e maestro" dei pagani nella fede e nella verità, (cfr 1 Tm 2,7; 2 Tm 1,11); si presenta come uno che ha ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo – così scrive – "ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna". (1 Tm 1,16). Quindi essenziale è che realmente in Paolo, persecutore convertito dalla presenza del Risorto, appare la magnanimità del Signore a incoraggiamento per noi, per indurci a sperare e ad avere fiducia nella misericordia del Signore che, nonostante la nostra piccolezza, può fare cose grandi. Oltre gli anni centrali della vita di Paolo vanno anche i nuovi contesti culturali qui presupposti. Infatti si fa allusione all'insorgenza di insegnamenti da considerare del tutto errati e falsi (cfr 1 Tm 4,1-2; 2 Tm 3,1-5), come quelli di chi pretendeva che il matrimonio non fosse buono (cfr 1 Tm 4,3a). Vediamo come sia moderna questa preoccupazione, perché anche oggi si legge a volte la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come parola dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del Signore e conoscere la sua presenza nella storia. Potremmo dire che, con questo breve elenco di errori presenti nelle tre Lettere, appaiono anticipati alcuni tratti di quel successivo orientamento erroneo che va sotto il nome di Gnosticismo (cfr 1 Tm 2,5-6; 2 Tm 3,6-8).

A queste dottrine l'autore fa fronte con due richiami di fondo. L'uno consiste nel rimando a una lettura spirituale della Sacra Scrittura (cfr 2 Tm 3,14-17), cioè a una lettura che la considera realmente come "ispirata" e proveniente dallo Spirito Santo, così che da essa si può essere "istruiti per la salvezza". Si legge la Scrittura giustamente ponendosi in colloquio con lo Spirito Santo, così da trarne luce "per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia" (2 Tm 3,16). In questo senso aggiunge la Lettera: "perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3,17). L’altro richiamo consiste nell’accenno al buon "deposito" (parathéke): è una parola speciale delle Lettere pastorali con cui si indica la tradizione della fede apostolica da custodire con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Questo cosiddetto "deposito" è quindi da considerare come la somma della Tradizione apostolica e come criterio di fedeltà all’annuncio del Vangelo. E qui dobbiamo tenere presente che nelle Lettere pastorali come in tutto il Nuovo Testamento, il termine "Scritture" significa esplicitamente l’Antico Testamento, perché gli scritti del Nuovo Testamento o non c’erano ancora o non facevano ancora parte di un canone delle Scritture. Quindi la Tradizione dell’annuncio apostolico, questo "deposito", è la chiave di lettura per capire la Scrittura, il Nuovo Testamento. In questo senso, Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio apostolico come chiave di lettura, vengono accostate e quasi si fondono, per formare insieme il "fondamento saldo gettato da Dio" (2 Tm 2,19). L’annuncio apostolico, cioè la Tradizione, è necessario per introdursi nella comprensione della Scrittura e cogliervi la voce di Cristo. Occorre infatti essere "tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme agli insegnamenti ricevuti" (Tt 1,9). Alla base di tutto c'è appunto la fede nella rivelazione storica della bontà di Dio, il quale in Gesù Cristo ha manifestato concretamente il suo "amore per gli uomini", un amore che nel testo originale greco è significativamente qualificato come filanthropía (Tt 3,4; cfr 2 Tm 1,9-10); Dio ama l’umanità.

Nell’insieme, si vede bene che la comunità cristiana va configurandosi in termini molto netti, secondo una identità che non solo prende le distanze da interpretazioni incongrue, ma soprattutto afferma il proprio ancoraggio ai punti essenziali della fede, che qui è sinonimo di "verità" (1 Tm 2,4.7; 4,3; 6,5; 2 Tm 2,15.18.25; 3,7.8; 4,4; Tt 1,1.14). Nella fede appare la verità essenziale di chi siamo noi, chi è Dio, come dobbiamo vivere. E di questa verità (la verità della fede) la Chiesa è definita "colonna e sostegno" (1 Tm 3,15). In ogni caso, essa resta una comunità aperta, dal respiro universale, la quale prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado, perché giungano alla conoscenza della verità: "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità", perché "Gesù Cristo ha dato se stesso in riscatto per tutti" (1 Tm 2,4-5). Quindi il senso dell’universalità, anche se le comunità sono ancora piccole, è forte e determinante per queste Lettere. Inoltre tale comunità cristiana "non parla male di nessuno" e "mostra ogni dolcezza verso tutti gli uomini" (Tt 3,2). Questa è una prima componente importante di queste Lettere: l’universalità e la fede come verità, come chiave di lettura della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento e così si delinea una unità di annuncio e di Scrittura e una fede viva aperta a tutti e testimone dell’amore di Dio per tutti.

Un’altra componente tipica di queste Lettere è la loro riflessione sulla struttura ministeriale della Chiesa. Sono esse che per la prima volta presentano la triplice suddivisione di episcopi, presbiteri e diaconi (cfr 1 Tm 3,1-13; 4,13; 2 Tm 1,6; Tt 1,5-9). Possiamo osservare nelle Lettere pastorali il confluire di due diverse strutture ministeriali e così la costituzione della forma definitiva del ministero nella Chiesa. Nelle Lettere paoline degli anni centrali della sua vita, Paolo parla di "episcopi" (Fil 1,1), e di "diaconi": questa è la struttura tipica della Chiesa formatasi all’epoca nel mondo pagano. Rimane pertanto dominante la figura dell’apostolo stesso e perciò solo man mano si sviluppano gli altri ministeri.

Se, come detto, nelle Chiese formate nel mondo pagano abbiamo episcopi e diaconi, e non presbiteri, nelle Chiese formate nel mondo giudeo-cristiano i presbiteri sono la struttura dominante. Alla fine nelle Lettere pastorali, le due strutture si uniscono: appare adesso "l’episcopo", (il vescovo) (cfr 1 Tm 3,2; Tt 1,7), sempre al singolare, accompagnato dall’articolo determinativo "l’episcopo". E accanto a "l’episcopo" troviamo i presbiteri e i diaconi. Sempre ancora è determinante la figura dell’Apostolo, ma le tre Lettere, come ho già detto, sono indirizzate non più a comunità, ma a persone: Timoteo e Tito, i quali da una parte appaiono come Vescovi, dall’altra cominciano a stare al posto dell’Apostolo.

Si nota così inizialmente la realtà che più tardi si chiamerà "successione apostolica". Paolo dice con tono di grande solennità a Timoteo: "Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri" (1 Tim 4, 14). Possiamo dire che in queste parole appare inizialmente anche il carattere sacramentale del ministero. E così abbiamo l’essenziale della struttura cattolica: Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio, formano un insieme, ma a questa struttura, per così dire dottrinale, deve aggiungersi la struttura personale, i successori degli Apostoli, come testimoni dell’annuncio apostolico.

Importante infine notare che in queste Lettere la Chiesa comprende se stessa in termini molto umani, in analogia con la casa e la famiglia. Particolarmente in 1 Tm 3,2-7 si leggono istruzioni molto dettagliate sull'episcopo, come queste: egli dev'essere "irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre... è necessario che egli goda buona testimonianza presso quelli di fuori". Si devono notare qui soprattutto l'importante attitudine all'insegnamento (cfr anche 1 Tm 5,17), di cui si trovano echi anche in altri passi (cfr 1 Tm 6,2c; 2 Tm 3,10; Tt 2,1), e poi una speciale caratteristica personale, quella della "paternità". L’episcopo infatti è considerato padre della comunità cristiana (cfr anche 1 Tm 3,15). Del resto l'idea di Chiesa come "casa di Dio" affonda le sue radici nell'Antico Testamento (cfr Nm 12,7) e si trova riformulata in Eb 3,2.6, mentre altrove si legge che tutti i cristiani non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio (cfr Ef 2,19).

Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla società in cui viviamo, come membri della "famiglia di Dio". E preghiamo anche perché i pastori della Chiesa acquisiscano sempre più sentimenti paterni, insieme teneri e forti, nella formazione della Casa di Dio, della comunità, della Chiesa.

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