La fine del neoliberismo?

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cointreau il possente
00venerdì 24 marzo 2006 20:00
Goodbye Milton Friedman

"Si, Stanford non è terra di difensori del welfare state". Professore di economia dal '67 in una delle più famose università private americane, Stanford appunto, Mordecai Kurtz ha vissuto l'ascesa e il trionfo delle idee neoliberiste che hanno avuto a Chicago la patria. E a Stanford, nella Business School e nella Hoover Institution soprattutto, ma nache nel Dipartimento di Economia, una sorta di secondo pilastro californiano della San Francisco Peninsula.
Kurtz, 71 anni, è stato tra l'altro l'autore con il Nobel Kenneth Arrow di un libro famoso, Public investment, the rate of return and Optimal Fiscal Policy (1970) sul rapporto tra rischi pubblici e rischi privati, e si interessa oggi in particolare - nell'era della globalizzazione - di economia dell'incertezza. Sono suoi alcuni degli studi più citati sui nodi cruciali del sistema pensionistico americano. Una serie di insicurezze sta rilanciando il ruolo della spesa sociale, sostiene Kurtz che offre una lettura dei mutamenti in corso nella società americana, e dei loro possibili sbocchi. "La stagione di Ayn Rand - grande propagandista e divulgatrice delle idee antistataliste e libertarie - e anche quella di Milton Friedman, che pure resta una figura centrale, si sta esaurendo" sostiene.
Oggi il professor Kurtz tiene alle 18 la Agostino Gemelli lecture all'Università Cattolica di Milano parlando su Financial Markets, Volatility and Pension Funds. Public Policy Evaluation and Social Risk. Ieri ha risposto ad alcune domande del sole 24 ore.

D: Perchè secondo lei le idee neoliberiste stanno arrivando, in politica sociale, al capolinea?
E' una questione di efficienza. Si è visto che certi ruoli, nella spesa sanitaria e in quella pensionistica, ad esempio, e nel garantir in genere la sicurezza, sono svolti in maniera più efficiente dalla mano pubblica. L'assistenza sanitaria americana costa il doppio di quella canadese e vede il 31% della spesa bruciato dalla parte burocratica. Questo non significa il ritorno al vecchio welfare state, che era di ispirazione socialista, ormai superato. Al centro del pensiero neoliberista c'è il concetto dell'inefficienza pubblica e della responsabilità privata. Serve invece un nuovo welfare state che affronti alcuni rischi-base.

D: Quali rischi e quale nuovo welfare state?
Parlo della realtà americana. Ormai stanno emergendo quattro diverse richieste di sicurezza: per la salute, che è insieme costosa e selettiva perchè lascia scoperto circa il 16% della popolazione; per una solvibilità della social security, che è il sistema pensionistico pubblico, cruciale; per garantire sicurezza a fronte di epidemie, disastri naturali, terrorismo; per una ragionevole tutela del posto di lavoro nell'era della globalizzazione. A queste quattro richieste deve rispondere lo Stato. Il vecchio welfare state distribuiva fondi a pioggia e così c'era chi preferiva non lavorare, e tutto il resto. No, la mano pubblica deve intervenire là dove è la soluzione migliore.

D: Ma la Casa Bianca propone una semiliberizzazione della social security
Tecnicamente un errore. Basta aumentare dell'1,9% i contributi pensionsitici per assicurare la solvibilità fino al 2075, quando l'ultimo babyboomer avrà 100 anni. Ma la riforma va avviata adesso, finchè c'è ancora una forte popolazione giovane. Bush non ce la fa, è legato a vecchi schemi. E la gente non si fida. Troppo ideologico.

D: Come e dove?
L'eccesso di ideologia è percepito al meglio nella questione dei tagli fiscali e del deficit abnorme che hanno generato.Ora, i tagli hanno dato una spinta keynesiana e sono serviti ad uscire in fretta dalla recessione del 2001, ma paralizzano la spesa. La gente vuole sicurezza, alcune sicurezze fondamentali. Intuisce che la mano pubblica è la più efficiente. Ma il presidente è convinto ancora della necessità delle vecchie ricette neoliberiste. Il Congresso dubita, e traccheggia. Da qui la paralisi.

D:Ma c'è una constituency sufficiente, un elettorato per queste riforme? I liberals sono si e no il 20%...
Chi teme per la pensione, chi paga troppo per la sanità, chi ha perso a 50 anni il posto di lavoro perchè dopo 30 anni l'azienda è andata in Cina e non può sentirsi dire che è colpa sua, chi ha visto l'inefficienza dopo l'uragano Katrina.La constituency è questa, e sta crescendo. Anche se nodi trasversali come aborto, immigrazione e altro ne possono rallentare l'agggregazione. Ma sta crescendo l'idea che la risposta individuale non basta, su alcuni punti. Su altri invece va spinta e incentivata. E c'è sifducia ormai nelle vecchie ricette reaganiane.

D: Perchè?
Troppa ideologia. C'è il forte sospetto che la strategia fiscale sia stata voluta in gran parte per "affamare la bestia", cioè la spesa pubblica, e alla fine tagliare. Ma demografia, sanità e sicurezza dicono che la spesa pubblica deve restare determinante, perchè certe cose le fa meglio della spesa privata.

D: e chi sono i leader della nuova era, all'orizzonte?
Il repubblicano John McCain ha intuito e ci sta pensando. Hillary Clinton ha intuito ma non so se potrà interpretare i tempi nuovi. Mancano due anni e mezzo al voto presidenziale. In politica, un'eternità.

da Il Sole 24 Ore di mercoledì 22.03.06

Sarà No Global?
-Kaname-chan
00venerdì 24 marzo 2006 21:44
A me non pare tanto no global. E nemmeno antiliberale. Lui vorrebbe ripristinare un welfare maggiore di quello attuale nel suo paese, ma non molto diverso da quello che c'è già. Ha detto chiaro e tondo che il welfare prereaganiano era "socialista", non mi pare lo abbia apprezzato. Ciò su cui ha molto battuto mi pare sia stata l'assistenza sanitaria. Ma siamo sicuri che è vero che lo stato è meglio? Qualche giorno fa ho letto di una signora che aveva sbattuto la testa, ha avuto un ematoma: bisognava aspirarlo, un'operazione stupidissima. E' morta. Morta perché non hanno trovato un posto letto. Meglio il sistema americano, che dà ai suoi pazienti un'assistenza nettamente superiore a quella di qualsiasi sistema europeo (Corriere della Sera "neocomunista" [SM=x751545] ). Il 16% però in USA non ha assistenza sanitaria. Il nuovo welfare potrebbe agire su quella quota marginale, invece di imporre la nazionalizzazione di tutta la sanità. E l'antitrust dovrebbe agire anke sulle polizze assicurative che a quanto pare sono incomprensibili persino agli avvocati della GM. Ma dalla riforma alla nazionalizzazione che speri tu ce ne passa

[SM=x751530]
Arvedui
00venerdì 24 marzo 2006 22:22
Gli americani sono piuttosto soddisfatti della qualità dei servizi medici, quindi il problema della riforma del sistema sanitario è che la gente ha paura che, mettendoci le mani, si finisca per distruggere quel che c'è di buono. Almeno così la pensa Clinton, come ha scritto nella sua autobiografia
Pius Augustus
00venerdì 24 marzo 2006 22:28
Mo domando come possano gli americani essere soddisfatti...
la se hai i soldi puoi essere curato benissimo,se sei povero puoi anche morire...una società ributtante.
Arvedui
00venerdì 24 marzo 2006 22:33
Re:

Scritto da: Pius Augustus 24/03/2006 22.28
Mo domando come possano gli americani essere soddisfatti...
la se hai i soldi puoi essere curato benissimo,se sei povero puoi anche morire...una società ributtante.



La qualità del servizio considerano ottima, non la quantità di cure mediche coperte dall'assicurazione. Poco ma buono, insomma (almeno fino all'era Clinton)
cointreau il possente
00sabato 25 marzo 2006 17:21
Re:

Scritto da: -Kaname-chan 24/03/2006 21.44
Ma dalla riforma alla nazionalizzazione che speri tu ce ne passa

[SM=x751530]



Nazionalizzazione che io vorrei? Dove l'hai letto? Forse non ricordi che non sono comunista...
Per quanto su molte cose non sia d'accordo con il buon Kurtz per quel che risulta da questa breve intervista, direi che entrambi ci rendiamo conto che alcuni servizi NON possono ASSOLUTAMENTE essere assolti dai privati (o solo dai privati, se preferisci) perchè lo Stato - incredibile!!!! - è più efficiente. Ma questa è appunto una bestemmia per i neoliberisti...


Ma siamo sicuri che è vero che lo stato è meglio? Qualche giorno fa ho letto di una signora che aveva sbattuto la testa, ha avuto un ematoma: bisognava aspirarlo, un'operazione stupidissima. E' morta. Morta perché non hanno trovato un posto letto. Meglio il sistema americano, che dà ai suoi pazienti un'assistenza nettamente superiore a quella di qualsiasi sistema europeo...
[SM=x751530]



...se possono permetterselo. Parti da un esempio stupido (scusa se lo dico) per arrivare a conclusioni affrettate. Estremizzi e porti all'accesso.
Comunque. Non era di questo che mi interessava parlare: l'articolo non l'ho postato per avviare il solito dibattito ideologizzato sul neoliberismo o per far dire quanto fanno schifo gli US ecc ecc.
Quel che mi interessava era mettere in luce la fine - forse - di una stagione, il ritrarsi della marea neoliberista. I segni ci sono tutti, a livello accedemico, geopolitico, dei rapporti di forza tra gli attori in gioco.
Il WTO sta fallendo, checchè ne pensi Bolkestein e ne dicano i nostri media. Ha fatto pochissimi passi avanti da Seattle, perchè ci sono nuove forze in campo che vogliono contestare le sue regole. Compresi i paesi del primo mondo che iniziano a rendersi conto di quanto sia pericoloso il modello cinese per i loro affari. Modello cinese che si sposa alla perfezione con i corollari politici (quelli veri, non quelli dichiarati) che derivano dall'assunto neoliberista: autoritarismo e crescita, scelte economiche guidate e protette dall'interesse nazionale.

Inoltre. S'è scatenata una corsa forsennata alle risorse energetiche, con la Cina che ha iniziato a comprare a man bassa in Sudamerica, reindirizzando in parte l'economia del backyard US verso l'Estremo Oriente. La Russia ha siglato pochi giorni fa un accordo per nuovi gasdotti da 80milioni di mq all'anno verso la Cina. Forse saranno costruiti anche nuovi oleodotti. La cara vecchia Europa - dipendente da queste risorse energetiche - inizia ad avere paura di "perdere" la russia come fornitore.

Il mondo neoliberista sognato dal WTO sta per tirare le cuoia, vittima delle sue stesse contraddizioni sociali ed economiche. In ogni angolo del mondo ci sono segni che si stanno affermando nuovi interessi che spingono verso un nuovo "protezionismo" ed una regionalizzazione dell'economia mondiale. Macroregioni - sud est asiatico, nordamerica e così via - all'interno delle quali c'è una rigida gerarchia ed una forte interdipendenza, e in forte competizione tra loro per l'accesso alle risorse. In questo quadro la stessa ideologia neoliberista - che fino a 5 anni fa rappresentava la Bibbia - viene messa in dubbio, perfino nei suoi templi. Quando anche a Stanford iniziano a dire che il re è nudo o semi-nudo, credo che i neoliberisti ciechi (quelli che credono a quello che professano) debbano iniziare a guardarsi alle spalle...

Chi vuole vedere vede, chi vuole rimaner cieco resti cieco. Non esistono ideologie "assolute" valide in ogni contesto e buone per ogni occasione. Ottime a prescindere. Il neoliberismo non è la fine della storia di Fukuyama. La storia non finisce, semplicemente.
Era solo il delirio d'onnipotenza di un'ideologia al suo apice.
cointreau il possente
00sabato 25 marzo 2006 20:21
"La fine della globalizzazione - Regionalismi, conflitti, popolazioni, consumi" di Alessandro Volpi
Globalizzazione. Una parola che è ormai entrata nel linguaggio quotidiano, e che dovrebbe rappresentare un mondo destinato a diventare progressivamente, grazie alle nuove tecnologie e alla liberalizzazione dei commerci, un grande villaggio globale, ormai privo delle barriere del passato. Allo stesso tempo, però, dalla cronaca di tutti i giorni riceviamo segnali che vanno in una direzione diversa: giorno dopo giorno possiamo constatare, ad esempio, che le guerre condotte dall’America di Bush hanno messo in crisi l’ONU, lo “Stato degli Stati”, oppure che l’Unione europea fa sempre più fatica a darsi una costituzione, o ancora che si stanno diffondendo tra i governi occidentali le tentazioni di proteggere i propri mercati dall’aggressiva concorrenza delle merci cinesi.

Intanto le distanze tra Nord e Sud del mondo si ampliano, mentre i conflitti etnici e religiosi in Africa e Asia si moltiplicano. Quali caratteristiche sta dunque assumendo realmente l’attuale processo di globalizzazione, e quali sono i suoi limiti? Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea all’Università di Pisa, elabora proprio questi interrogativi nel suo La fine della globalizzazione? Regionalismi, conflitti, popolazione, consumi (BFS edizioni, 2005), mettendo a fuoco, attraverso il riscontro di dati di prima mano e gli spunti offerti dalla più aggiornata letteratura in materia, le più recenti trasformazioni socio-economiche e politiche avvenute sul pianeta.


Volpi avvia il suo ragionamento dimostrando come in realtà di globalizzazione nel senso più comune del termine si possa parlare solo con riferimento alla circolazione dei capitali e degli investimenti: diventa invece più difficile parlare di globalizzazione per quanto riguarda lo scambio delle merci, considerate ad esempio le sovvenzioni e le protezioni di cui i contadini europei e statunitensi continuano a profittare, oppure nel caso della libertà di muoversi degli esseri umani, date le forti restrizioni che ancora i paesi più ricchi oppongono all’ingresso di donne e uomini di molte nazionalità nei propri territori .

A queste contraddizioni si sovrappone poi un nuovo – decisivo – fenomeno che secondo Volpi contribuisce a rendere sempre meno convincente la rappresentazione di un mercato mondiale destinato a diventare unitario, ovvero la speciale natura dell’impetuosa crescita economica di stati, come Cina, India e Brasile, che ormai non possono essere più collocati tra i “paesi in via di sviluppo”. Queste economie, ricorda l’autore, si stanno espandendo a vista d’occhio principalmente grazie alla loro capacità di tenere su livelli molto bassi gli stipendi dei lavoratori (raramente più di 100 dollari mensili) e così di produrre a prezzi infinitamente inferiori rispetto ai paesi occidentali.


Si viene così a profilare una sorta di “regione economica” o più precisamente – secondo la definizione di Volpi – un «regionalismo di scambio» tra i paesi emergenti, destinato ad un futuro di crescente integrazione al suo interno ma che rappresenta un elemento di frantumazione della scena globale, visti i differenti, quasi inconciliabili interessi che progressivamente vengono alla luce. A partire da questo fenomeno dunque la globalizzazione viene ad assumere una nuova forma «a macchia di leopardo», caratterizzata da numerosi regionalismi, una chiave di lettura da non intendersi strettamente nel suo significato “geografico” che esprime le tante situazioni di sempre più intensa interrelazione, ma di contemporanea chiusura verso l’esterno, che vanno diffondendosi su scala globale. Questi fenomeni di frammentazione, e di riaggregazione, sono ovviamente condizionati in maniera profonda dall’azione di iperpotenze come USA e Cina, alle quali Volpi dedica una specifica e dettagliata analisi.

Si rendono poi ancora più urgenti i problemi dell’inquinamento dell’atmosfera e del surriscaldamento del pianeta, di fronte ai quali il protocollo di Kyoto sembra ormai diventato poco più di un palliativo. Le catastrofi naturali si sono infatti infittite e hanno fatto sentire le loro conseguenze, economiche e umane, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: negli anni novanta il 96% delle vittime di inondazioni, terremoti e uragani abitava in questi stati. I cataclismi sono anche tra le cause delle migrazioni di milioni di persone, così come i conflitti etnici e religiosi, che compromettono ulteriormente le possibilità di vincere la povertà del continente africano. Del resto sfuma ormai l’obiettivo di poter prevenire diplomaticamente gli scontri armati: dopo la caduta del muro di Berlino le guerre tra stati sono state sempre meno frequenti a livello mondiale, e sempre più spesso a combatterle sono truppe paramilitari o mercenari, non gli eserciti regolari.

Di fronte a questa «regionalizzazione dei conflitti», e all’impossibilità di trovare una sede internazionale per regolarli, emerge con grande evidenza il fallimento dei sogni di chi immaginava una globalizzazione tendenzialmente “democratica”, dove i contrasti e le difficoltà venivano affrontati in maniera collettiva su scala planetaria. Il quadro delineato dal volume raffredda le speranze: in questo senso la globalizzazione, scrive Volpi, «pare esaurire la propria vicenda ancor prima di essersi realizzata».

Articolo a cura del Dottor Alessandro Breccia
cointreau il possente
00domenica 23 dicembre 2007 17:26
Re:
-Kaname-chan, 24/03/2006 21.44:

Ma siamo sicuri che è vero che lo stato è meglio? Qualche giorno fa ho letto di una signora che aveva sbattuto la testa, ha avuto un ematoma: bisognava aspirarlo, un'operazione stupidissima. E' morta. Morta perché non hanno trovato un posto letto. Meglio il sistema americano, che dà ai suoi pazienti un'assistenza nettamente superiore a quella di qualsiasi sistema europeo (Corriere della Sera "neocomunista" [SM=x751545] ). Il 16% però in USA non ha assistenza sanitaria. Il nuovo welfare potrebbe agire su quella quota marginale, invece di imporre la nazionalizzazione di tutta la sanità. E l'antitrust dovrebbe agire anke sulle polizze assicurative che a quanto pare sono incomprensibili persino agli avvocati della GM. Ma dalla riforma alla nazionalizzazione che speri tu ce ne passa

[SM=x751530]



Buffo rileggere questo intervento un anno e mezzo dopo l'uragano Katrina.
Il tempo è galantuomo, a volte.


-Kaname-chan
00domenica 23 dicembre 2007 22:50

Il mondo neoliberista sognato dal WTO sta per tirare le cuoia, vittima delle sue stesse contraddizioni sociali ed economiche. In ogni angolo del mondo ci sono segni che si stanno affermando nuovi interessi che spingono verso un nuovo "protezionismo" ed una regionalizzazione dell'economia mondiale. Macroregioni - sud est asiatico, nordamerica e così via - all'interno delle quali c'è una rigida gerarchia ed una forte interdipendenza, e in forte competizione tra loro per l'accesso alle risorse. In questo quadro la stessa ideologia neoliberista - che fino a 5 anni fa rappresentava la Bibbia - viene messa in dubbio, perfino nei suoi templi. Quando anche a Stanford iniziano a dire che il re è nudo o semi-nudo, credo che i neoliberisti ciechi (quelli che credono a quello che professano) debbano iniziare a guardarsi alle spalle...



Non li avevo visti tutti questi interventi [SM=x751596] Cmq è vero che il WTO non ce la fa a funzionare come vorrebbe e che il mondo va verso blocchi macroregionali. Il che è un peccato. Quelli di Stanford o di altre cerchie non erano liberali, erano conservatori che dicevano che il liberalismo funzionava perché agli USA conveniva. Appena si rendono conto che i loro interessi sono minacciati dicono che, no, forse è meglio proteggersi e magari lanciare un paio di missili su Pechino così da liberarsi di un pericoloso concorrente. Il libero scambio potrà anche morire ma se succederà non produrrà né la liberazione del III mondo (cui anzi conviene, vedi Cina o India) né un meggior benessere per il I mondo, finalmente protetto dai cattivoni musi gialli. L'eventuale fine della WTO porterà solo alla fine della lunga pace vissuta dalla maggior parte del mondo negli ultimi 60 anni. Si tornerà ai blocchi degli anni '30, alla competizione economica che, non essendo libera di dispiegarsi con armi economiche, sarà combattuta con i cannoni. Il WTO è un sogno, il WTO significa risolvere le controversie economiche con le armi dell'economia e non della politica. Significa competere ma non necessariamente in un gioco a somma zero: nonostante le paure che il gioco sia, appunto, a somma zero, la storia negli ultimi 2 secoli ha dimostrato che era possibile allargare la ricchezza a parti sempre più vaste del mondo. E il WTO cercava di pilotare questo allargamento all'interno di un sistema di regole universali onde impedire che la paura del concorrente porti alla guerra doganale e dalla guerra doganale si passi alla guerra guerreggiata. Il successo della WTO io lo vedo come il raggiungimento dell'ideale di Kant della pace universale. Le barriere cadono, le culture si incontrano e, pur tra contraddizioni e paure, la libertà e il benessere avanzano. Se ci si chiude si avrà di nuovo il nazionalismo e il concorrente tornerà a essere un nemico. Il totalitarismo avanzerà in nome della lotta a un nemico subdolo e mortale, che minaccia la nostra civiltà ecc. ecc.

PS: non è vero che il liberismo va a braccetto col totalitarismo. Non c'è solo la Cina, c'è anche l'India. E tra le due è proprio la Cina quella a rischiare di più, a causa di un sistema politico che non calza più con la società che il liberismo ha creato e continua a creare. Se il libero scambio non morrà la Cina cambierà sistema politico prima o poi. Invece se si arriverà ai blocchi contrapposti, un regime come il cinese troverà nuova linfa per sopravvivere
c'eraunavodka
00giovedì 3 gennaio 2013 20:11
Re:
Pius Augustus, 24/03/2006 22:28:

Mo domando come possano gli americani essere soddisfatti...
la se hai i soldi puoi essere curato benissimo,se sei povero puoi anche morire...una società ributtante.




Non proprio, un primo soccorso è garantito a tutti, ma poi bisogna avere una copertura assicurativa per accedere a cure mediche particolari.
Ma non si può paragonare Usa e Ue, sono mondi troppo diversi.
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