"Quindi vuol dire che Dio permetterebbe alle anime di "soffrire" agonizzando nel fuoco dell'inferno?"
Dio non manda all’inferno nessuno. Quando saprai dirmi come la teologia cattolica fa stare insieme queste due frasi avrei capito la questione:
a)"Dio non manda nessuno all’inferno"
b)"L’inferno probabilmente non è vuoto”
Voglio però metterti sulla buona strada perché altrimenti non ne vendiamo più fuori.
Premesse: né inferno né paradiso sono luoghi ma stati dell’anima. Il paradiso è la comunione con Dio, mentre l’inferno è la privazione da Dio, l’eterna lontananza da Lui, questo è per la Chiesa lo stridor di denti. Inoltre partiamo dal presupposto che non sono le opere a salvare, ma la fede. Non è dunque che Dio faccia un calcolo delle nostre opere e poi decida “dove” mandarci: semplicemente chi fa il male fallisce esistenzialmente; non vive in comunione con Dio, e dunque si è autoescluso dal paradiso, che è comunione con Dio, senza che Dio debba fare alcunché, perché è l’uomo che si sceglie da solo l’inferno, cioè la privazione da Dio.
Dio, alla morte, non fa che ratificare quello che l’uomo s’era già scelto in vita, cioè che se costui ha voluto stare senza Dio in vita sarà così anche nella morte. Non mi sembra cioè corretto dire che Dio ci giudica in base alle opere, o che queste formano una somma di meriti che ci permette di accedere al paradiso, credo che piuttosto le opere buone predispongano/strutturino l’anima alla comunione con Dio e che dunque nella morte il Signore non faccia altro che ratificare quello che abbiamo inseguito in vita, cioè il cercare l’amore.
Altro problema teologico: che cos’è l’eternità? L’eternità per la teologia cattolica non è un tempo infinito, da qui viene il non-senso della domanda su come possano colpe finite giustificare una pena infinita temporalmente. L’eternità infatti non è un tempo infinito ma l’assenza di tempo. Inoltre non è questione di colpa cui corrisponde pena, ma di fallimento esistenziale che fa vivere l’uomo “etsi deus non daretur”, come se Dio non ci fosse. Si spiega anche qui perché Dio non manda all’inferno nessuno: è l’uomo che fa tutto da solo, Dio ratifica soltanto quello che hanno già scelto. Se hanno scelto di vivere senza Dio in vita, così sarà anche dopo, giacché l’inferno è questo, la non partecipazione a Dio. E’ quasi una forma di rispetto per il libero arbitrio di chi ha scelto il non-teismo. Dio non può associare a sé chi non lo vuole, e il paradiso è per l’appunto la comunione con Lui. Durante la nostra vita di cristiani non facciamo altro che
configurarci affinché quando la nostra anima muoia sia in una disposizione tale da essere in comunione con Dio, perché se l’abbiamo rifiutato, Dio stesso non può farci niente, l’adesione alla communio è libera. "Colui che ha creato te senza di te, non salverà te senza di te." (Agostino)
Volendo riassumere questa traccia: per l’escatologia cattolica il paradiso non è stare tra le nuvole e l’inferno non è stare tra le fiamme(queste sono metafore bibliche), bensì il paradiso è l’eterna e piena comunione con Dio mentre l’inferno è l’eterna privazione da Dio, l’essere lontani da lui. Se qualcuno ha deciso di vivere senza Dio in vita allora sarebbe una violenza alla sua scelta che sia in comunione con Dio dopo la morte, vale a dire che Dio non fa altro che ratificare la scelta che la persona aveva già fatto per se stessa in vita.
Dopo la morte l’anima si trova davanti alla perfezione del suo Creatore, Lo vede finalmente faccia a faccia ed ha un metro per misurare la sua vita, metro che è dato dalla visione del Bene in sé e per sé, cioè Dio, che viene ad essere un metro di misura per poter giudicare la propria vita e rendersi conto del proprio fallimento o della propria riuscita esistenziale. A questo punto è l’anima stessa che guardandosi indietro sa se è “degna”/”predisposta”/”configurata” all’eterna comunione con Dio o se non ne è degna; vale a dire che, per l’anima dannata, la luce di Dio può diventare addirittura insopportabile perché non fa che ricordare quale sia stata la nostra miseria esistenziale nei confronti della perfezione del Creatore e del suo amore. Ovviamente ciascuno conosce la sua storia individuale e le sue cosiddette “attenuanti”, le conosceremo perché sarà la luce di Dio a svelarcele, ciascuno dunque saprà insieme a Dio se la sua vita l’ha reso pronto a questa comunione beatifica o al contrario la sua vita l’ha fatto auto-escludere dalla salvezza. Ciascuno, dinnanzi alla luce della grazia divina, saprà da sé stesso se davvero non aveva visto alcuna luce oppure se i suoi occhi erano semplicemente coperti dal proprio orgoglio. Un mandriano mai uscito dal Tibet potrà davvero sapere di fronte a Dio che non aveva alcuna colpa di non essere cristiano, mentre altri sapranno quanto il loro arbitrio può averli dannati. Un cardinale cattolico tra i migliori teologi del XX secolo, von Balthasar, arrivò a teorizzare che l’inferno fosse vuoto. La dannazione infatti si ha solo nell’ostinato e tenace rifiuto di Dio, ratificato in morte, nella scelta cioè di vivere una vita in completo dispregio del Creatore e delle sue creature.
Un brano sulla natura dell'inferno da una sintesi contemporanea:
Con la sua discesa agli inferi, il risorto ha annunciato che la salvezza viene da lui (1Pt 3,18-19). In lui il Padre vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tm 2,39).
Nella vita terrena l'uomo ha dunque tutte le possibilità di decidersi per Cristo. Il non farlo presuppone undisattendere e quindi minare per sé l'ordine del Creatore nella valutazione entitativa delle realtà create. La persona percepisce la gravità di tale decisione, ma nonostante ciò fa una scelta al di fuori o contro 1'« armoniaesistenziale » individuale e in rapporto alla comunitàumana e alle realtà create. Conclusa l'esistenza terrena, appare al soggetto l'estrema gravità e l'irreparabile danno che la persona ha fatto a se stessa.
L'inferno, dunque, è la « tragedia » nella quale l'uomo si è scientemente « ordinato » e « predestinato » con il suo « no » a Dio e all'opera sua, a Cristo quale « Via, Verità e Vita » (Gv 14,6).
Con il suo magistero Gesù ha messo in guardia l'umanità intera e nello stesso tempo ha donato a ogni uomo, che liberamente lo voglia, l'opportunità di ripartire da lui, usufruendo dei mezzi di salvezza che egli stesso offre attraverso l'annuncio e la sua Chiesa.
La condizione definitiva che l'uomo, oltre la realtà viatoria, avrà per l'eternità, sarà quella che egli ha scelto e voluto deliberatamente durante la vita terrena.
La parabola di Lazzaro (Lc 16,23 -26) è eloquente e il suo genere letterario ci dà il senso di questa responsabilità dell'uomo e della irresponsabilità di una mutazione dopo la morte. La comunità post-pasquale ha chiara sia l'eternità della situazione di sofferenza, sia l'immutabilità dopo la morte dello stato o di beatitudine o di pena.
È necessario richiamare che coloro i quali durante la vita terrena hanno rifiutato lo stile cristico e la scelta dell'Amore, non sono mai stati oggettivamente abbandonati dalla presenza nella storia degli « strumenti » concreti ed efficaci della misericordia di Dio. Se l'uomo liberamente accetta e vuole « convertirsi » a Dio, può mutare la sua vita e la sua sorte (Lc 15,11-32).
Ora, colui che, giunto oltre la morte, ha concluso l'esperienza terrena e si rende conto di aver impostato la sua vita al di fuori o contro la «logica di salvezza », vive il suo relazionarsi con Dio nella consapevolezza di essere nel fallimento totale e irreversibile, perché ha costruito « sulla sabbia » (Mt 7,26), cioè lontano o contro la logica dell'Amore, che è compiere la volontà del Padre (Mt 7,21). Pertanto, la presa di coscienza, nella piena consapevolezza che il soggetto ha dopo la morte, di non aver scelto Dio diviene il tormento che fa sentire l'uomo esistenzialmente impoverito per sempre e gli dà la convinzione della verità su di lui: ha perduto la relazionalità beatificante di Dio, l'Essere assoluto che solo può appagare un essere limitato e finito quale è l'uomo.
Questa condizione, sia dell'anima prima della risurrezione della carne che dell'uomo con essa, è denominata dalla teologia classica con il termine di « pena del danno », in quanto l'aver deciso contro Dio e l'averlo quindi estromesso e perduto, costituisce per l'uomo, sul piano della realizzazione esistenziale, il danno irreparabile più grave, che rende imploso il senso della sua esistenza. La consapevolezza, poi, di aver scientemente mortificato in modo grave l'adeguata apertura al senso soprannaturale, per volgere le proprie scelte significative e durature solo verso tutto ciò che è creaturale, in senso ontologicamente disordinato, inciderà come profonda sofferenza, che segnerà il soggetto uomo dopo la morte. Questa è legata, secondo la teologia classica alla « pena del senso » che di per sé è indicata nell'« icona » del fuoco.
Questo è dunque quello che la teologia cristiana intende per « pena dell'inferno ».
L'uomo all'inferno, non essendo questo un luogo spazio-temporale, ma uno stato profondo dell'anima e del « ricomposto individuo » dopo la risurrezione della carne, non « va » o « viene mandato », ma, rendendosi conto dell'opportunità a lui lasciata per la sua piena realizzazione come essere creato a immagine di Dio, egli rimane in quel fallimento con il tormento esteso di non aver scelto l'Amore, pur potendo, nell'unico « tempo » propizio (2Cor 6,2) e possibile per la decisione: la realtà viatoria.
Dalla Scrittura, dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa, come nei Concili di Lione (1274) e di Firenze (1439), sottoscritti anche dalle Chiese d'Oriente, e dallo stesso Vaticano II (1962), emerge il senso della natura dell'impoverimento esistenziale dell'uomo, cioè dell'inferno. Non si tratta di un luogo bensì, non essendo fuori dell'uomo, di uno stato stabile dell'essere razionale - dopo la morte - nella sua opposizione a Dio e al progetto antropologico divino. Questa scelta, effettuata e continuata nella realtà viatoria, produce un profondo impoverimento della tensione dell'uomo verso il Creatore, tanto da fargli comprendere, oltre la morte, di aver perduto, con le sue scelte, per sempre, Dio, sua felicità.
Dopo aver usato le « vie » della misericordia, Dio, nella sua perfezione e giustizia infinita, non può che constatare la scelta fatta dal soggetto razionale.
Lo stato di eterna perdizione costituisce, per l'uomo che ha rifiutato Dio, il rimorso eterno, la cui sofferenza e tormento sono rappresentati dall'immagine del fuoco, presente nello stesso magistero di Gesù. La natura, dunque, dell'inferno è legata alla scelta contro Dio: ciò che la teologia chiama peccato. Si tratta dunque di azioni od omissioni deliberatamente volute dal soggetto e fortemente contrarie a servire e ad amare l'ordine stabilito da Dio per l'uomo e il suo rapporto con la realtà creata, come il Creatore l'ha progettata. La natura del peccato, infatti, viene definita come adversio a Deo e conversio ad creaturas(distogliere lo sguardo da Dio e volgersi alle creature).
Tale tensione costituisce proprio lo stile di coloro che, privati della « visione beatifica », sono nel tormento di essere in uno stato di totale fallimento per l'eternità.
Il loro stato è pari, in modo prettamente cosciente e consapevole, a quello della natura del peccato con tutte le conseguenze sul piano esistenziale e della volontà.
L'escatologia cristiana è coerente con l'instancabile messaggio di conversione e di misericordia offerto da Dio mediante l'economia salvifica nella realtà del tempo. L'economia della grazia è sempre pronta, con i gesti di Cristo, a ridare senso e verità al desiderio di conversione nella realtà viatoria.
Nella sua natura l'inferno è dunque frutto dell'amore consapevolmente tradito e poi mal riposto, in antitesi con tutto ciò che il Creatore ha offerto per la vera realizzazione entitativa dell'uomo, quale sua immagine e somiglianza. Il soggetto uomo viene a conoscere, dopo la morte, il suo totale fallimento, che nell'atto della consapevolezza provoca l'infelicità.
Credo si possano qui riportare le parole del Salmo: « Amò la maledizione e lo ha raggiunto, non ha voluto la benedizione e si è allontanata da lui» (Sal 109,17).
Dio, che ha creato l'uomo libero, non potrà far altro, essendo giusto e perfetto nel suo operare, che ratificare ciò che il soggetto razionale ha scelto per sé, nonostante gli impulsi della divina misericordia. Anche qui possiamo applicare le parole del Rabbi: « Li abbandonai alla durezza del loro cuore, perché camminassero secondo il loro volere» (Sa181,13).
È necessario superare l'idea che l'inferno sia lo stato causato dalla collera di Dio. Ripetiamo, sino alla noia, che è l'uomo che si è posto fuori dalla logica di Dio, in quanto - afferma l'apostolo Paolo - avendoci Cristo giustificati, noi siamo salvati dalla collera (Rm 5,9) e pertanto Cristo Gesù, essendo stato risuscitato dai morti, ci salverà dalla «futura ira» (1 Tm 1,10).
Accettare Cristo significa mettersi in condizione di fare esperienza della misericordia, compiendo la volontà del Padre che dona comunione ed esperienza, dove ogni avversione e «collera » sono vinte dall'amore donato e ricambiato, i cui frutti l'uomo raccoglierà anche e soprattutto nella vita eterna. (Ettore Malnati, La speranza dei cristiani, Edizioni Paoline, Milano, 2003
Padre Surin (1600-1665) paragonava la condizione esistenziale dell’inferno “allo stato di una freccia vigorosamente lanciata verso un bersaglio, dal quale è continuamente respinta da una forza invisibile”, e la cosa essenziale è che questa forza invisibile che ci rende incapaci di arrivare a Dio è interamente opera nostra.
Mi sia lecito chiudere con Dante che fa narrare a Bonconte il suo sincero pentimento dell'ultima ora:
“Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini', e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero e tu 'l ridì tra ' vivi:
l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l'etterno
per una lagrimetta che 'l mi toglie;
ma io farò de l'altro altro governo!".