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VII di Pasqua

Ultimo Aggiornamento: 23/05/2009 22:35
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23/05/2009 22:35
 
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Commento al Vangelo del 24 maggio
Il cielo dimora di Dio?
VII Domenica di Pasqua
22.05.2009
di Giuseppe GRAMPA
Parroco di S. Giovanni in Laterano, Milano


Forse è facile sorridere quando ascoltiamo il racconto dell'Ascensione di Gesù al cielo, come un volo nello spazio, come un palloncino o l'aquilone che sfuggito alla mano di un bambino si perde a poco a poco nelle nuvole. Certo, per gli antichi che non avevano alcuna approfondita conoscenza dello spazio risultava facile situare in alto, nei cieli, la dimora di Dio. Oggi le conoscenze che abbiamo della natura ci impediscono di ritenere il cielo come la residenza privilegiata di Dio. Ricordo quando il cosmonauta sovietico Gagarin rientrò dal primo viaggio nello spazio, dichiarò di non aver incontrato Dio nei cieli. Il cielo sarebbe disperatamente vuoto. Lasciamoci istruire dal simbolo dell'Ascensione. Questa immagine spaziale, salire al cielo, andare in alto, indica anzitutto l'esaltazione del Signore Gesù. Quest'uomo che ha vissuto fino in fondo la nostra condizione umana, discendendo dal cielo per incarnarsi nella nostra umanità, quest'uomo che ha lavorato con mani d'uomo, amato con cuore d'uomo, quest'uomo che ha sofferto ed è stato messo a morte è ora esaltato, portato in alto alla destra del Padre, perché tutti riconoscano in lui il vertice dell'intera umanità. Nella seconda lettura Paolo lo afferma con chiarezza: «Ma che cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?».

Albero bello e splendente

L’Ascensione è solo la traccia visibile di una realtà ben più grande: Cristo è il vertice - in alto appunto - della storia umana. L’Ascensione è come il compimento, la verità della passione e della croce. E infatti l'evangelista Giovanni per indicare la crocifissione adopera un verbo singolare: il verbo elevare, innalzare. Gesù stesso così annuncia la sua morte imminente: «Quando sarò elevato-innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L'elevazione da terra sul patibolo della croce è innalzamento, glorificazione. Il patibolo è addirittura cantato come «albero bello e splendente». Una volta Gesù, sempre alludendo alla sua morte, aveva detto: «Se il chicco di grano, caduto in terra, muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). L'Ascensione esprime visibilmente questa certezza: solo chi dà la sua vita, chi la perde, chi si abbassa, chi scende nei solchi bui della sofferenza umana, sarà elevato, innalzato, sarà principio di salvezza. Chi discende, nella logica del condividere, del perdersi dentro…, chi non teme di abbassarsi in un movimento di partecipazione con chi è al fondo; questi solo ascende ed è l'innalzato. L'ascensione è la risposta luminosa al più oscuro discendere.

L’approdo definitivo

Gesù, leggiamo nel testo odierno, «veniva portato su, in cielo» (24,50). Il cielo, non la terra è l'ultimo approdo della vita di Gesù, il cielo è anche il nostro ultimo, definitivo approdo. Eppure noi amiamo appassionatamente la terra, la abitiamo, la trasformiamo. Sempre più spesso, purtroppo, la deturpiamo e sfruttiamo. Eppure la terra non è la nostra ultima e definitiva dimora. La abitiamo provvisoriamente, anche se giorno dopo giorno in essa affondiamo le nostre sempre più tenaci radici. Per molti questa certezza è sorgente di tristezza e anche disperazione. Dobbiamo apprendere a coltivare e custodire la terra sapendo che non è la nostra definitiva abitazione, che non è cosa nostra: sarà dei nostri figli e dei figli dei nostri figli, noi siamo solo inquilini provvisori. Siamo tutti dei clandestini su questa terra e non solo quei poveri disperati che ricacciamo nei loro paesi. Infine il simbolo dell'ascensione il gesto dell'uomo che in piedi volge lo sguardo al cielo racchiude una verità profonda. Guardare in alto, verso il cielo è l'espressione di un desiderio, di un bisogno: non a caso questo gesto istintivo si manifesta soprattutto nei momenti di difficoltà, quando il chiuso orizzonte immediato non basta. L'uomo è se stesso solo de-centrandosi. L'uomo è se stesso solo uscendo da sé per andare verso il mondo, verso gli altri, per andare alla ricerca di una ragione e di un significato per la sua esistenza. E' nell'apertura e nel dono all'altro - esperienza dell'amicizia e dell'amore - che il mio io trova la sua piena realizzazione. Ha scritto un filosofo contemporaneo, Ernst Bloch: «Senza le strade interiori dell'anima non si riesce a percorrere, eretti e con dignità, le strade esteriori del mondo». Ha scritto il nostro sant'Ambrogio: «Dove è la fede lì è la libertà». E' questa libertà il dono della Pasqua: essere diritti, non più piegati verso la terra, ma secondo la stupenda espressione del profeta Osea, «chiamati a guardare in alto» (11,7).
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